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FRANCESCA AMENDOLA
29 Ottobre 2014

La parola come verità e utopìa nella poesìa dì Amalia Marmo
di
Francesca Amendola

A ripercorrere il cammino poetico di Amalia Marmo da: Vento del Sud (2004) a Le rose di Pieria (2007) all’ultima fatica Mnemosyne (2011) si ha subito la netta idea di una accresciuta pregnanza di significati ed una grande capacità di utilizzo della lingua, spaziando da lessemi classici a sintagmi leopardiani e montaliani. Muove dall’essere cantore della terra a cantore dell’anima. La sua terra è essenziale nel canto della prima raccolta (la poesia Lucania ne è un esempio; qui la costatazione dei mali che affliggono la Lucania sono oscurati e superati dall’immensa umanità della gente) tanto che Daniele Giancane, nella Prefazione al libro Vento del Sud, parla di poesia di terra, riportando la definizione di Gastone Bacheard, per il quale i poeti si possono distinguere a seconda dell’elemento primigenio
presente in loro (acqua, ter-ra, fuoco, aria).
Il poeta si nutre della propria terra, della propria appartenenza a un luogo. Si parla di terracame, di paeso-logia, per dirla con il giornalista Franco Arminio; una sorta di scienza dell’appartenenza, che ci portiamo cucita sulla pelle. «La paesologia», è «una via di mezzo tra l’etnologia e la poesia [...] Non è altro che il passare del mio corpo nel paesaggio e il passare del paesaggio nel mio corpo», come a voler significare che noi sia-mo paese ed è là che nasce la scrittura e la poesia di Amalia.
La sua vena poetica cattura momenti quotidiani, flash di vita vissuta, che svaniscono in “cerchi nebulosi”, poiché la memoria non resite alla forbice ’ del tempo, che distrugge i ricordi e li di-sperde come foglie d’autunno. Vi è un senso di smarri-mento nel poeta poiché il tempo scorre e la mente non riesce ad annodare il passato al presente. Non si tratta solo di memoria dei tempi andati come per Montale, Leopardi, memoria intesa solamente come rimembranza, la posizione della Marmo, già dalla prima raccolta, è mol-to più vicina a Marcel Proust, ne Alla ricerca del tempo perduto, che fa rivivere il passato nel presente fino ad annullare le distanze temporali in una sorta di tempo circolare.
La memoria dell’infanzia è nella Marmo forza rasserenatrice, attesa, spensiera-tezza mentre nel Recanatese il passato, anche se doloro-so, è piacere e consolazione.
La poesia nasce dal suo animo romantico, da un’acuta sensibilità che la porta allo scavo interiore, a quella profonda inquietudine esistenziale che le impone dubbi e domande metafisiche. La capacità del suo canto di registrare momenti della vita altrimenti perduti è magica quasi divina, per dirla con Ungaretti, è una «preghiera/gradita all’ Eterno/nell’ inerzia dei tempi. (in Anche le pietre)». E’ improvvisa illuminazione, che porta il poeta a scoprire il segreto e rivelarlo agli altri. La scrittura si dispiega con ele-gante cantabilità nel comu-nicare emozioni e con un timbro personalissimo. Il pessimismo, la malinconia si convertono in una inquietudine interiore, in una tensione spirituale che si stempera in una preghiera che è andatura misteriosa «nei profili di Dio,/quasi incanto perenne » (in Richiamo d’eterno). Nella contemplazione si fonde l’angoscia per la caducità di tutte le cose, per la precarietà del vivere e si sviluppa il tema dell’angulus ridet onirico, memoriale: il tempo dell’infanzia, quando il tuffarsi «in un cunicolo di vie/tra-boccante miele,/ » (in Mnemosyne) era il godimento assoluto.
Una relazione corposa vi è tra il rigurgitare dei sogni e la dimensione dell’oggi, che si addensa in metafore, nel gioco delle rime interne, delle assonanze che sono l’asse portante dell’espressione poetica. La parola diviene per la Marmo specchio del mon-do, verità e utopia che il poeta dopo tanta mistificazione degli ultimi anni tende a recuperare, a riconsiderare. Il poeta diventa una sorta di de-miurgo, che ricrea la realtà e la fissa come in un bel quadro. La poetessa sa che porta in tasca l’universo, sa che amare la poesia significa morire e rinascere come l’araba fenice e che è solo la poesia a sconfiggere (foscolianamente) la morte. Francesca Amendola

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