Giacomo Amati

GIACOMO AMATI

22.02.2016

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MIGLIONICO - Nel circolo culturale “La Fucina”, la storia di Angelo Moccia
"Una mala vita"

MIGLIONICO. Angelo Moccia, uno dei capi tra i più temuti della camorra napoletana, il 3 febbraio 1992, quando era ancora un camorrista potente, appartenente all’associazione delinquenziale denominata “Nuova Famiglia”, in contrapposizione alla “Nuova Camorra Organizzata” di Raffaele Cutolo, si consegnò alla Giustizia dello Stato italiano e lanciò agli altri camorristi un invito esplicito alla resa. La ricostruzione di questa vicenda è al centro del libro “Una Mala Vita”, ed. Tullio Pironti, Napoli, di Libero Mancuso (ex magistrato) e di Saverio Senese (avvocato penalista). L’opera, che è strutturata in tre parti e si articola in 24 capitoli, per complessive 232 pagine, è stata mirabilmente presentata dal prof. Domenico Lascaro nella sede del locale circolo culturale, “La Fucina”. Il relatore, nel raccontare la vicenda, accaduta oltre venti anni fa, ne ha messo in luce gli interessanti risvolti giuridici:  “Non solo – ha precisato – permette di ridare slancio ad iniziative finalizzate alla prevenzione, al recupero ed alla battaglia per l’abolizione della pena dell’ergastolo, ma consente anche di stimolare la riflessione sull’individuazione dei possibili percorsi che consentano l’allontanamento dal mondo della delinquenza organizzata”. A seguito della “resa” del camorrista Moccia, l’organizzazione delinquenziale di cui faceva parte, si dissolse e parecchi camorristi si pentirono; Moccia, invece, si dissociò. “Per rifarsi una vita, per tornare ad avere il rispetto dei propri familiari, era necessario pagare il proprio debito con la Giustizia, insegnando ai propri figli il principio che “chi sbaglia deve riconoscere le proprie colpe, tutte, e scontarle. Senza ricorrere a scorciatoie”. Poi, Lascaro ha precisato che l’ex camorrista si rese, autore della proposta di “dissociazione” dalla criminalità, “consegnandosi in un carcere, senza chiedere nulla in cambio”. Si faceva strada l’ipotesi che “la collaborazione limitata all’ammissione delle proprie responsabilità sarebbe stata una manovra volta ad aggirare il dilagante fenomeno del pentitismo ed a minare le basi dell’offensiva giudiziaria che stava creando le premesse per la piena sconfitta militare ed organizzativa delle associazioni criminali della camorra campana”. In seguito, però, prevalse la tesi di coloro che sostenevano: “Con i boss non si tratta, la via è quella del carcere duro”. Nel corso del dibattito che ne è seguito, Giovanni Finamore ha osservato come la pena giudiziaria debba tendere alla rieducazione del condannato. In particolare, è stato sottolineato che "la Giustizia, prima ancora di essere una legge giudiziaria dello Stato italiano, è una virtù morale, fondata sull’onestà, la lealtà e il senso del dovere, volta a riconoscere a ciascuno ciò che gli è dovuto". Infine, è stato delineato il rapporto esistente tra la giustizia sociale e la disuguaglianza sociale. Da qui l’opportunità di eliminare il disagio sociale, di sopprimere la povertà economica ed arginare al massimo il fenomeno della disoccupazione che, spesso, sono le cause indirette di tante azioni delinquenziali. Giacomo Amati

Created by Antonio Labriola - 10 Luglio 1999 - Via Francesco Conte, 9  -  75100 Matera - Tel. 0835 310375